IL PROCESSO A GIORDANO BRUNO

Castelfidardo, 29 aprile 2020

Il processo a Giordano Bruno.

Forse con più timore pronunciate la sentenza contro di me, di quanto ne provi io nell’accoglierla”.

Così il filosofo nolano rivolto ai giudici dopo la sentenza pronunciata l’8 febbraio 1600 dal collegio giudicante del Sant’Uffizio.

Giordano Bruno, denunciato otto anni prima dal nobile veneziano Giovanni Mocenigo, accusato dall’Inquisitore Roberto Ballarmino con otto capi di imputazione (le “otto proposizioni eretiche”), viene condannato a morte per “[…] essere eretico impenitente pertinace e ostinato, e perciò incorso in tutte le censure ecclesiastiche e pene dalli sacri Canoni, leggi e costituzioni così generali come particolari…” e bruciato sul rogo alzato a Roma, in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. http://www.treccani.it/enciclopedia/giordano-bruno/.

Come ha scritto il Dei nella sua introduzione agli “Atti del processo di Giordano Bruno”, Sellerio, Palermo, 2000, p. 48) “un processo per reati di opinione, in un ambito di assolutismo confessionale o ideologico, permette all’imputato due sole vie di salvezza: o dimostrare di non aver mai professato le opinioni imputate, o abiurarle”.

Il processo.

Non si trattò di un processo sommario.

Le denunce di Mocenigo, contenenti le dettagliate accuse contro il filosofo nolano (“aver sentito a dire a Giordano Bruno nolano…che è bestemia grande quella de’ cattolici il dire che il pane si transustanzi in carne; che lui è nemico della messa; che niuna religione gli piace…” e così via – cfr. Atti, cit. p. 91 e segg.), furono ritenute inizialmente non provate in quanto non suffragate da riscontri ed anzi smentite dagli stessi testi citati dal delatore e quindi non sufficienti a condannare il filosofo (in base al principio unus testis nullus testis).

Anche le successive denunce del frate capuccino Celeste di Verona (compagno di cella a Venezia di Bruno) e le testimonianze di altri carcerati furono ritenute, a vario titolo, non attendibili.

Furono acquisiti tutti i libri e i manoscritti di Bruno per esaminarli de visu.

Su queste e sulle tesi da questi propugnate vennero formulate le otto proposizioni eretiche.

A Bruno fu concesso di esaminare tutte le deposizioni dei testi d’accusa, di ricevere copia delle proposizioni, di presentare difese scritte e di essere interrogato. 

Come ha evidenziato il Dei “[..] Vennero controllate e fatte ripetere tutte le deposizioni dei denuncianti e dei testimoni, ricercate le opere a stampa incriminate e concesse a Bruno larga possibilità di difesa” (cfr. Atti del processo, cit., p. 50 e segg.).

“[…] L’imputato fu trattato con un certo riguardo, assecondato nei suo bisogni e messo in condizioni di manifestare, a voce e per iscritto, le proprie ragioni”.

“Non solo non vi fu preventiva volontà di condanna, ma venne probabilmente percepito il valore dell’uomo e del suo sforzo”.

Obiettivo dell’Inquisizione e del Sant’Uffizio era quello di convincere Bruno a salvarsi, cioè ad abiurare.

Lo scopo era che il filosofo, proprio per la sua statura e per l’importanza delle questioni che sollevava, si piegasse alla Chiesa.

La linea difensiva di Bruno.

Nel corso di tutta la vicenda giudiziaria Bruno cercò di adattare la propria difesa alle accuse e agli elementi a sostegno di questa.

Nella fase iniziale del procedimento a Venezia, come ricorda il Dei, quando la situazione non dovette apparire così grave all’imputato, l’atteggiamento fu quello di mostrare formale pentimento collaborando con il tribunale, dichiarandosi pronto all’abiura di tutti i suoi errori, nella speranza che il processo, celermente condotto dai giudici veneziani, si chiudesse con una blanda condanna.

Quando il processo fu spostato a Roma per ragioni di competenza, la situazione mutò.

Annota il Dei come “Bruno… negò gli addebiti oggettivamente insostenibili, e tentò di difendere il più possibile del suo sistema filosofico, dimostrandone l’ortodossia in contrapposizione all’ortodossia tradizionale”.

Egli “…credeva davvero di ribaltare le posizioni, di convincere i giudici che il suo pensiero, più del loro, si avvicinasse alla verità: anche alla verità rivelata”.

Di fronte alle otto proposizioni eretiche che il cardinale Ballarmino gli sottopone per l’abiura, Bruno si difende tentando un escamotage.

Si dice non contrario ad una abiura generale con efficacia ex nunc, un espediente per affermare che le sue opinioni già espresse non contrastavano con la Scrittura e tuttavia prendeva atto che a partire da allora venivano ritenute non conformi dall’autorità pontificia.

Il suo atteggiamento però nei fatti, pur a fronte di una formale disponibilità ad abiurare, smentiva questa volontà continuando  egli a voler discutere, a distinguere, a confrontarsi.

Ostinazione, eccessiva fiducia in sé stesso?

Traspare dagli Atti “…l’immagine di un uomo che tenta disperatamente di salvare accanto alla propria vita il proprio pensiero, come fossero due entità inseparabili”.

Posto però davanti alla scelta stringente, senza più margini di trattazione, di dibattito o di difesa delle proprie ragioni, Bruno rifiutò di abiurare.

Il 21 dicembre 1599, Bruno dette ai giudici la sua risposta: “che non deve né vuole ritrattare, e che non ha da ritrattare e che non ha materia di ritrattazione, e che non sa su cosa debba ritrattare”.

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